Dal 9 al 12 luglio, il MoVI si è unito agli altri 150 volontari di MEAN per portare a Kiev un messaggio di speranza e contribuire ad un’azione nonviolenta di costruzione della pace.

Ecco  la testimonianza di Paolo

“si ma…”. In questi mesi di conflitto in Ucraina alzi la mano chi, anche con le migliori intenzioni, durante una discussione non ha sentito l’impulso di dire la sua, soprattutto di esprimere il disaccordo con questa o quella posizione ascoltata, sui protagonisti coinvolti direttamente o indirettamente nel conflitto? O di esprimere quel particolare ragionamento che sembrava mancare fino a quel momento.

A volte lo si capisce dall’espressione dell’interlocutore il momento in cui scatta il “click” del “si…ma”.
Nulla di male in generale, ma da appassionati – preoccupati – arrabbiati – sconcertati dovremmo  domandarci, alla fine: a chi è giovato quel ragionamento, quella discussione? A chi è giovato sviscerare o denunciare questa o quella responsabilità? Cosa ha apportato in termini di miglioramento della situazione dissentire o giudicare?

Ci caschiamo tutti, con le più nobili intenzioni del mondo, nel replicare spesso il modello della contrapposizione, dello schieramento, del giusto/sbagliato, impegnati nel voler vedere riconosciuta la nostra ragione. Forse può servire a chiudere una discussione, a casa nostra, lontani dal conflitto e dai rischi reali per la vita, ma non sposta di un millimetro, ad esempio, la posizione di molti ucraini che ripetono incessantemente di essere stati pacifici e pazienti per anni, di non essere stati considerati dalla comunità internazionale (dal 2014 come minimo) e che ti spiegano che sono stati costretti a prendere in mano le armi per difendere la loro terra. E non c’è giustificazione più potente al ricorso alle armi di chi lo fa per difendersi perché costretto, perché altrimenti “non lo avrebbe mai fatto”. Ancora più potente di come se la racconta l’aggressore che probabilmente esegue solo degli ordini, quasi sicuramente mette a repentaglio la sua vita per una causa non sua e, in alcuni casi anche se ben pagato si trova costantemente a scegliere se il lauto stipendio vale la morte e l’impossibilità di goderselo. Un “noi” (quello degli ucraini) che si contrappone ad un “voi” (gli europei, per restare in casa). E come può esserci un unico “noi” se viviamo oggettivamente due mondi diversi, l’uno con la pioggia di missili e l’altro no? Come possono essere credibili il nostro ripudio della guerra, le proposte di cessate il fuoco se fatte al di là dei confini seduti sul proprio divano di casa?
Come far capire che ci teniamo alle nostre sorelle e fratelli ucraini almeno tanto quanto ai valori di nonviolenza che perseguiamo?

Solo entrando nella loro vita, condividendo la loro stessa condizione, “camminando per tre lune nelle loro stesse scarpe”, accollandosi  – per un po’ – su di noi il peso che portano loro. Allora  possono cominciare a credere che qualcuno tiene davvero a loro. Allora, dialogando, ti reputano credibile e si confidano per spiegarti davvero cosa vivono. Allora ti ringraziano anche se non porti armi o beni di prima necessità (cosa di cui hanno estremo bisogno). Allora ci tengono a scusarsi  perché sanno cosa stai rischiando ad essere lì con loro e non possono garantirti l’incolumità.

Loro… che là sono e là restano…. . Allora ti dicono che sono molto consapevoli che noi in Europa stiamo facendo sacrifici per loro. Allora ti chiedono di farti portavoce presso la comunità più grande, quella europea – tra  una richiesta di aiuti e l’altra, tra formule di rito e discorsi istituzionali – che hanno bisogno di pensare al loro futuro e hanno bisogno di farlo insieme; che la pace è possibile e che non può essere delegata solo alle istituzioni ma che deve essere espressione della comunità di persone che abitano l’Europa. Allora si dimostrano interessati a collaborare alla costituzione dei corpi civili di pace europei.

Chi di noi del MoVI, ha partecipato all’iniziativa a Kiev organizzata dal MEAN assieme a tutti gli altri attivisti – la prima vera iniziativa diplomatica popolare – ha vissuto tutto questo; sa che è solo il primo passo, sa che siamo ancora in pochi e che servirà coinvolgere ancora più fortemente le nostre organizzazioni, i nostri territori, le nostre istituzioni per rendere fattivo quell’abbraccio che cementa l’unico “noi” credibile e potente anche ai loro occhi. Chi è stato a Kiev come me, Elizabeth Rijo e Mimmo Guaragna, sa anche che tutto quello che si è realizzato non era affatto scontato e che solo grazie all’ascolto rispettoso, senza pregiudizio, la nostra proposta di pace ha più possibilità di vedersi realizzata.
Non è stato facile, ognuno di noi ha dovuto fare i conti con le proprie paure, da un lato, e con le proprie opinioni, dall’altro ma ne è davvero valsa la pena.

WE ARE ALL UKRAINIANS, WE ARE ALL EUROPEANS.

Paolo Della Rocca

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